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domenica, settembre 18, 2005

A cura di Attilio Scarponi sede AERF Roma       attilio.scarponi@erbasacra.com



“Proprio come l'artista saggio produce la sua arte da sé, in sé e in essa prevede le cose da fare... allo stesso modo l'intelletto produce da sé e in sé la sua ragione, in cui pre-sa e casualmente  pre-crea tutte le cose che desidera fare “Questa citazione di Giovanni Scoto Eriugena, un monaco irlandese, nato agli inizi del era nono secolo d.c., che visse gran parte della sua vita in Francia, noto come teologo, seguace della scuola "negativa" o Apofatica di origine bizantina, ma soprattutto come filosofo della conoscenza, è riportata in “Costruttivismo Radicale”, di Ernst von Glasersfeld.

Ora, naturalmente, qui non interessa la sua teologia quanto piuttosto la metafora della conoscenza presente nella citazione, che ipotizza un paragone strutturale tra l’arte, la scienza, la filosofia e di ogni altra forma di conoscenza umana, posto che si sia tutti d’accordo a considerare questi campi come campi della conoscenza.
Questa consapevolezza di una medesima struttura, in campi applicativi diversi, non si è sempre mantenuta nel corso dei secoli, ma, specie nella fase post rinascimentale e di affermazione della scienza occidentale, nei suoi effetti di ampliamento della conoscenza ma anche e, forse soprattutto, economici e militari, ha generato un progressivo allontanamento tra il dominio della conoscenza scientifica”esatto” e “oggettivo” per definizione ed altri saperi più “soggettivi” e approssimativi fino a raggruppare le scienze in “esatte” e “umanistiche”, che in questa ottica avrebbero operato in base a presupposti assai diversi.
E’ solo in tempi recenti, per impulso delle speculazioni seguite alle scoperte della Meccanica Quantistica e della Relatività, che la filosofia della Scienza ha cominciato a porsi il problema dei presupposti inconsapevoli a partire da cui operano i singoli scienziati ponendosi nuove domande sulla cosiddetta realtà oggettiva e come la Scienza contribuisca a conoscerla.
Una domanda importante, che ha contribuito non poco allo sviluppo di un nuovo punto di vista, è: come si sviluppa il sapere scientifico ?
La risposta tradizionale, si basa sull’accumulazione di sapere e gli scienziati sono coloro che contribuiscono ad ampliare questo deposito di conoscenza.
In realtà questa concezione non rende conto di troppi elementi ed appare francamente semplicistica per dare conto della realtà delle cose e negli ultimi cinquanta anni sempre più scienziati e storici della scienza hanno cercato di approfondire i presupposti di questa concezione.

Rispondere alla domanda: come si sviluppa il sapere scientifico  vuol dire, sostiene Thomas Kunn, da un lato determinare chi e quando ha realizzato una certa scoperta e dall’altro dare ragione dei ritardi, errori e superstizioni che hanno ostacolato lo sviluppo del sapere scientifico.

Ora, nella storia della scienza, non è sempre possibile dire chi e quando hanno realizzato una certa scoperta, anche perché fare una scoperta vuol dire molto di più che disporre di un nuovo processo, identificare un elemento, ecc., specie se la scoperta è importante occorre cambiare il proprio paradigma di conoscenze e acquisire consapevolezza del significato della novità che si ha davanti.
Voglio dire: qualcosa di simile alla scoperta dell’America; poco importa se prima di Colombo i Vichinghi o magari altri popoli l’avevano visitata se ciò non aveva prodotto alcun tipo di conseguenza per la civiltà perché non si erano resi conto che la scoperta avrebbe cambiato la carta della terra, con le conseguenze che ne sono derivate.

A questa prima considerazione va aggiunto che spesso le credenze del passato non erano meno “scientifiche” di quelle odierne, almeno nel senso del metodo scientifico,  e lo storico della scienza si trova così davanti alla necessità di includere nella storia della scienza teorie affatto incompatibili tra loro.

Se però invece di vedere la storia della scienza come l’accumulazione costante di conoscenze, nella prospettiva del presente e del benessere che i singoli contributi hanno apportato all’oggi, la esaminiamo alla luce delle concezioni allora vigenti, e dei problemi affrontati e risolti con quelle concezioni forse allora potremmo renderci conto che per misurare un campo non occorre la scienza galileiana o newtoniana e meno ancora la relatività, è più facile adottare i presupposti di Tolomeo.

C’è bisogno sia di osservazione ed esperienza, sia di presupposti culturali e sociali ai quali l’individuo somma i suoi propri, frutto della propria neurologia e della propria educazione.

Le risposte a domande quali: come è fatto l’Universo, quali sono e come interagiscono i suoi componenti fondamentali o come possiamo indagarli fanno parte dei presupposti della propria cultura che vengono assorbiti, inconsapevolmente, durante la propria formazione scolastica ed esercitano una profonda influenza sulla mentalità scientifica ad un punto che, come osserva ancora Kunn, “la confutazione di un paradigma scientifico e l’adozione di uno nuovo non dipende mai dalle singole contraddizioni esistenti tra la spiegazione dedotta dal paradigma vigente e le misurazioni in contrasto col medesimo”.

Per passare dalla fisica Newtoniana a quella relativistica o quantistica c’è stato bisogno di un lungo processo, una fase di crisi e, come ammette lo stesso Kunn, di una diversa percezione.

Ora è assai importante chiarire che percepire non è affatto un ricevere passivamente input esterni, l’atto di selezionare alcuni elementi della nostra esperienza, ovvero raccogliere i dati, e su questa base percepire l’esistenza di un mondo di oggetti, la realtà, è tutt’altro che un fatto passivo, come già ebbero modo di chiarire sia Piaget sia molti altri.

Per introdurci a questa visione costruttivista della conoscenza credo sia utile questo passo di Carlos Castaneda( A scuola dallo stregone).
……. Castaneda si recò a Sonora, in Messico, per incontrare un brujo(stregone), di nome don Juan, per farsi aiutare ad apprendere a vedere. Così Don Juan se ne va con Carlito nella boscaglia messicana per insegnargli a vedere ciò che vi avviene. Essi camminano per un'ora o due e improvvisamente don Juan dice: "Guarda, guarda là! Hai visto?' Castaneda risponde:’No... non ho visto". 'Niente di male'. Riprendono il cammino e dopo circa dieci minuti DonJuan ancora: 'Guarda, guarda là! Hai visto?' Castaneda guarda e dice: 'Non vedo un bel niente'. 'Ah!'. Continuano a camminare e la stessa scena si ripete altre due o tre volte, ma Castaneda non vede mai niente. Finalmente don Juan trova la soluzione: 'Ora capisco, Carlito, qual è il tuo problema. Non puoi vedere le cose che non sai spiegare. Cerca di dimenticarti delle spiegazioni e comincerai a vedere '.

Come è evidente da questa citazione  percepire non è un “rispecchiamento” della realtà, ma è un vero e proprio fare”, un “costruire” la realtà, almeno per quanto riguarda la conoscenza.

Questo tema, il tema della percezione come “fare” è già presente nella storia della filosofia, basti pensare a Berkley, Vico e, soprattutto Kant, è un tema centrale nella filosofia costruttivista che ha approfondito gli spunti pervenuti dai pensatori precedenti e grazie all’adozione di un modello scientifico fondato sulla biologia piuttosto che uno basato sulla fisica ha potuto fondare con grande efficacia e fecondità questo punto di vista.

Sono proprio due biologi come Marturana e Varela, in “L’albero della Conoscenza”, partendo da una critica serrata dei limiti e problemi della tradizionale concezione della percezione come “ricezione” di stimoli, ovvero intesa solo come rispecchiamento della realtà, a proporre una visione evoluzionista della conoscenza come punto finale del processo evolutivo.
L’analisi inizia proprio da un esame dei problemi della percezione.
Con una osservazione che troverà fecondo sviluppo nella Programmazione Neurolinguistica, i due autori affermano:”Niente di quello che stiamo per dire potrà essere compreso in modo veramente efficace se il lettore non si sentirà coinvolto personalmente, se non avrà un'esperienza diretta che vada oltre la semplice descrizione che se ne può fare”, ovvero tra la conoscenza attraverso la vista, attraverso le sensazioni attraverso il ragionamento c’è una irriducibilità relativa e per intendere veramente qualcosa bisogna sperimentarlo attraverso più di un sistema sensoriale, nel quale quello delle sensazioni ha, appunto, un’importanza primaria.
Vi propongo pertanto questa simpatica esperienza costruttivista, al termine della quale forse l'apparente solidità del nostro universo di esperienze diverrà per tutti rapidamente sospetta.
Fissare lo sguardo sulla croce disegnata nella figura, coprendosi l'occhio sinistro e ponendo la pagina a una distanza di circa 40 centimetri. Ciò che si osserverà è che il punto nero, nella figura di dimensioni non trascurabili, improvvisamente scompare! In realtà si può fare questa stessa osservazione senza alcun disegno, semplicemente sostituendo la croce e il punto con i pollici. Il dito appare decapitato (provate!).


x                                             *

La spiegazione normalmente accettata per questo fenomeno è che in questa particolare posizione l'immagine del punto (o del dito, o del suddito) cade nella zona della retina da cui si diparte il nervo ottico, zona non sensibile alla luce e chiamata «punto cieco». Però, quando si dà questa spiegazione, raramente viene messo in evidenza il perché non ci accorgiamo sempre del «buco» che abbiamo nell'occhio. La nostra esperienza visiva è relativa a uno spazio continuo e, a meno che non ricorriamo a queste ingegnose manipolazioni, non percepiamo che nella realtà c'è una discontinuità. Il fatto interessante nell'esperimento del punto cieco è che non vediamo di non vedere.
Ed in realtà, nella vita di tutti i giorni, anche ora in questa sala, se nel nostro campo visivo apparisse un “buco”, sono certo che ci faremmo subito visitare da un oculista……
 
Questo ed altri esperimenti consentono di affermare che la nostra esperienza è indissolubilmente legata alla nostra struttura:noi non vediamo lo spazio ma viviamo il nostro “campo visivo”.

E’ questo il punto di partenza per riflettere sulla conoscenza in se stessa, un tema particolarmente complesso da affrontare per la circolarità implicita nell’utilizzare uno strumento di analisi per analizzare se stesso, è come, dicono Marturana e Varela “se pretendessimo che un occhio vedesse se stesso”.

E qui, con un’intuizione davvero illuminante i due autori fanno ricorso all’arte, ad una famosa incisione di M. C. Escher:le due mani che si disegnano a vicenda, di modo che non si riesce a sapere qual è l’inizio del processo.





Il motivo che conferisce a questa immagine la sua forza esplicativa sta nel rappresentare con tanta efficacia il paradosso autoreferenziale, di cui dobbiamo a Gregory Bateson una brillante investigazione, basata sulla teoria dei tipi logici, elaborata da Bertand Russell nei “Principia Matematica”.

Esaminiamo, ad esempio il celebre paradosso del cretese.

Il cretese dice:tutti i cretesi mentono.
Come osservatore che si include nel gruppo mente per dire la verità, se invece si esclude dal gruppo dice la verità per rivelare una menzogna.

Il paradosso è dunque insito in ogni sistema di osservazione perchè nessuna osservazione può escludere l’osservatore e le osservazioni dell’osservatore includono il suo osservare.

Come osservatore il cretese parlava della classe dei cretesi, come cretese poteva parlare solo per se stesso, ovvero di un elemento di questa classe.
In base alla teoria dei tipi logici una classe non può essere elemento di se stessa.
Peraltro è lo stesso buon senso a dirci che la classe delle forchette non può essere una forchetta.
Ma, come avrebbe detto Bateson, 'La logica è uno strumento molto elegante, il guaio è che quando la si applica a granchi e focene e farfalle, e alla formazione di abitudini"non va molto bene."
La questione sta nel fatto che la vita stessa è paradossale, la presenza di un osservatore è inevitabile, così come è inevitabile che l’osservatore osservi se stesso ed il suo osservare;in fondo il paradosso del mentitore è una metafora della realtà.
Piaget presenta un modello di costruzione di più di un concetto – 'oggetto', 'spazio', 'causalità' e 'tempo' – e poi suggerisce come i quattro elementi vengano integrati per formare lo sfondo dell'esperienza, cioè il mondo esterno.
Il modo di osservare,dunque, dipende dai presupposti dell’osservatore, per esempio il superamento in fisica della visione meccanicistica ed il passaggio al pensiero sistemico ha messo al centro della visione scientifica non più gli oggetti, ma le relazioni, in maniera simile Gregory Bateson, e con lui tutti i costruttivisti, si domanda:
“Quale struttura connette il granchio con l'aragosta, l'orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi?”
Una delle idee centrali nel pensiero di Bateson è che la struttura della natura e la struttura della mente sono l'una un riflesso dell'altra, che mente e natura sono un'unità necessaria.
La metafora esprime una somiglianza strutturale o, meglio ancora, una somiglianza di organizzazione, e la metafora in questo senso fu la preoccupazione centrale dell'opera di Bateson.

Alla formazione di paradossi il linguaggio presta un valido contributo, che il seguente racconto di Margaret Mead illustra in maniera divertente.

Durante uno dei suoi studi sul linguaggio presso una certa popolazione si aiutava ad apprendere il loro linguaggio utilizzando la modalità denotativa. Così additava un oggetto, e poi un altro, aspettandosi che le venisse fornito il loro nome, ma, in ogni caso, tutte le persone le rispondevano sempre: “Chemombo!” Tutto era Chemombo. Ella pensò “Mio Dio, che linguaggio terribilmente noioso! Hanno una sola parola per tutto!” Finalmente, dopo un certo periodo, riuscì a scoprire il significato di Chemombo, che significava... indicare con il dito!

La confusione della Mead nasceva da un presupposto:dico 'sedia' e la addito per denotare l'oggetto. Ma in realtà quando dico 'sedia' non addito la vostra sedia ma evoco in voi la nozione che avete delle sedie, quindi conto sul fatto che ci basiamo su nozioni condivise e reciproche relative a questo particolare riferimento.

I presupposti sono faccende assai insidiose e in genere ogni generazione ha il compito di esaminare e svelare i presupposti impliciti di quella precedente, fatto che ogni genitore di figli adolescenti ha certamente e fastidiosamente sperimentato.
Nella formazione di questi presupposti il linguaggio gioca certamente un ruolo importante, senza di esso non sapremmo come rappresentare a noi stessi ed agli altri la nostra esperienza, ma poiché le parole sono la traduzione dell’esperienza che facciamo con i cinque sensi, in questa traduzione si annidano delle insidie.
Generalmente si sostiene che il linguaggio sia una rappresentazione del mondo, ma io vorrei proporvi esattamente l'opposto, e cioè che il mondo è un'immagine del linguaggio col quale descriviamo la nostra esperienza del mondo. Dunque l’esperienza è la causa, il mondo è la conseguenza.
Tra le trappole del linguaggio, che però ci serve qui per illustrare uno specifico modo col quale il linguaggio è la causa e il mondo è la conseguenza c’è la nominalizzazione. Significa che il verbo può essere trasformato in sostantivo. E quando un verbo diventa nome, è come se diventasse un oggetto indipendente da noi e noi perdiamo la capacità di decidere su di esso.
Molte persone che ricorrono alla Psicoterapia sono vittime di una nominalizzazione. Esse dicono “quel giorno purtroppo ho deciso della mia vita, con quella scelta”…
Scegliere e decidere sono due processi e in realtà nulla può impedirmi di decidere diversamente e di scegliere un diverso comportamento quando mi renda conto che il precedente era dannoso…tranne la parola, che ha trasformato in cosa, fuori dal mio controllo quel che in un processo rimane in mio potere.

Una bella metafora del modo di ragionare che ci porta direttamente al punto finale di questa riflessione è la parabola della focena.

Bateson riporta un fatto vero, riferito all’addestramento dei delfini.

A uno di questi veniva insegnato come esibirsi in pubblico in diversi esercizi,nel  primo veniva sollecitata con un fischio e poi premiata con un pesce.
Nel secondo non udiva alcun fischio e quindi si esibiva con un leggero colpo di coda, segno di malcontento, ma poiché era questo il comportamento richiesto, veniva premiata.
Naturalmente nel terzo esercizio il colpo di coda non veniva premiato e ciò diede luogo durante un addestramento ad un comportamento molto speciale.
Dopo molte tentativi infruttuosi la focena apparve assai nervosa finché all’esercizio successivo produsse ben otto diversi comportamenti, quattro dei quali mai osservati in questa specie.
Se ne può concludere che, dopo aver resistito ad una fase di acuta tensione, dovuta all’ errore sulle regole che danno significato ad un rapporto emotivamente importante, la focena mostrò un comportamento creativo.

Ma pur potendolo definire creativo non sarebbe possibile definirlo artistico anche se
presenta senza’altro alcuni elementi artistici come l’esercizio di un’abilità e l’utilizzo di un comportamento strutturato per comunicare qualcosa di significativo per l’istruttore.

Anche il linguaggio usato dal delfino ha caratteristiche che ritroviamo nell’arte:è un linguaggio che non comunica attraverso le parole, semplicemente perché utilizza un tipo di comunicazione diversa da quella verbale e logica, il linguaggio del delfino è analogico perché mostra un comportamento e non con un comportamento.

Mostrare attraverso un comportamento, presuppone una traduzione alla coscienza del comportamento inconscio e quindi il linguaggio del corpo che ne deriva è il riflesso di un concetto;in modo simile l’allegoria è la metafora di una relazione razionale tra astratte categorie intellettuali(ex.:allegoria dell’arte, della teologia ecc.) a differenza delle genuine manifestazioni artistiche che sgorgano dall’inconscio e successivamente vengono espresse con i mezzi della tecnica propria dell’arte specifica.

L’artista, in altre parole, va al di là dell’elaborazione cosciente del fine che si propone, in quanto il fine cosciente è una parte o, meglio, una fase di un meccanismo conscio/inconscio, il cui processo è sistemico e costituisce l’essenza dell’universalità dell’opera d’arte.

In questo processo, infatti, si realizza una relazione tra processo primario e coscienza, che può bene assimilarsi ad un processo cibernetico, nel quale l’intero universo contenuto nell’inconscio trova realizzazione ed interpretazione finalistica nell’interpretazione cosciente e sociale, ma questa a sua volta rinvia ad altri significati inconsci e da scoprire, in un meccanismo ricorsivo ed autocorrettivo.

In conclusione abbiamo visto che la scienza, la filosofia, l’arte si fondano sulla capacità di “percepire”, ovvero “costruire” una propria conoscenza della realtà, ciascuna opera con presupposti, ciascuna è vittima di un linguaggio che “reifica”, ovvero trasforma in “cose” i processi.

In questo difficile esercizio, l’uomo utilizza una “struttura che connette, ovvero una metafora, attraverso la quale riesce a “mettere in relazione” ciò che il linguaggio “digitale”, espressione della sua parte razionale, non sa costruire e concepire.

La creatività è frutto di un processo ricorsivo razionale-conscio, irrazionale-inconscio a partire dalla frustrazione delle scelte, operate nell’ambito di un paradigma noto, sia nella loro funzione descrittiva, sia in quella prescrittivi.

C’è quindi, sia nell’arte, sia nella scienza e nella filosofia una “ricorsività” di livelli logici  che ci inducono a ritenerle altrettante forme di conoscenza .

Permettetemi ora di sottoporvi qualche fatto, che scelgo tra gli innumerevoli che potrei prendere in considerazione.

Nel 1863 Manet espone “Dejeuner sur l’erbe”, nasce l’impressionismo.

La sua pittorica si fonda, almeno per gli aspetti che ci interessano, soprattutto nell’uso del colore e della luce. Il colore e la luce sono gli elementi principali della visione: l’occhio umano percepisce inizialmente la luce e i colori, dopo di che, attraverso la sua capacità di elaborazione cerebrale distingue le forme e lo spazio in cui sono collocate. La maggior parte della esperienza pittorica occidentale, tranne alcune eccezioni, si è sempre basata sulla rappresentazione delle forme e dello spazio.
 
Non è difficile capire che l’impressionismo si fonda su una diversa percezione(costruzione) della conoscenza della realtà.

Nel 1875 Wundt apre a Lipsia il suo laboratorio di psicologia, dando inizio alla giovane storia di questa disciplina come scienza autonoma, separata dalla filosofia.

Nell’ambito del suo sistema definisce la psicologia” l’intero contenuto dell’esperienza nella sua relazione con il soggetto” che richiede quindi l’introspezione come metodo. I contenuti dell’esperienza immediata (percezioni, sentimenti, ricordi) costituiscono processi complessi che è possibile scomporre nei loro elementi semplici; i compiti che spettano alla ricerca psicologica sono quindi tre: analizzare i processi composti; stabilire quali sono le connessioni tra gli elementi individuati dall’analisi; individuare le leggi di associazione da cui derivano i processi psichici complessi.

In altre parole, la psicologia si indirizza a essere una scienza del comportamento umano, basata sulle relazioni soggetto/oggetto, contenute nella sua esperienza.
Infine, nel 1927, Heisenberg elaborò il famosissimo Principio di Indeterminazione.
Questo principio afferma che maggiore è l’accuratezza nel determinare la posizione di un particella, minore è la precisione con la quale si può accertarne la velocità e viceversa.
Quando si pensa all’apparecchiatura necessaria per eseguire le misurazioni, questa indeterminazione risulta intuitiva. I dispositivi di rilevazione sono così grandi che la misurazione di un parametro come la posizione è destinato a modificare la velocità. Occorre sottolineare però che le limitazioni in parola, non derivano solo dall’invasiva interazione del mondo macroscopico sul mondo microscopico, ma sono proprietà intrinseche (ontologiche) della materia. In nessun senso si può ritenere che una microparticella possieda in un dato istante una posizione e una velocità.

In questi tre esempi possiamo verificare come quel mondo di oggetti, definito realtà, che trova la sua espressione più compiuta nella pittura rinascimentale, con la scoperta della prospettiva e lo sviluppo del disegno della figura umana, nella meccanica galileiana e newtoniana, che descrive le leggi del moto di oggetti nello spazio, quella descrizione ontologica della realtà del “Cogito ergo sum” viene sostituito da un mondo di relazioni.

Mi pare di poter dire che senza una diversa percezione della realtà difficilmente Heisemberg avrebbe elaborato il suo principio, Wundt la sua psicologia, né sarebbe nato l’impressionismo.

E’ troppo poco per concludere che i cambiamenti di paradigma nell’arte e nella scienza dipendano solo dal diffondersi di una nuova maniera di percepire il rapporto individuo/realtà, non avendo peraltro detto come si formi, né come si diffonda tra i diversi soggetti questa nuova percezione, ma il tema è abbastanza suggestivo per continuare a ragionare su questa, direbbe Bateson, “Struttura che connette”.


Attilio Scarponi

Di Ennio Martignago da Cambiare.org http://www.cambiare.org

Una regola da prendere sempre in considerazione, soprattutto nelle
relazioni d'aiuto, è quella che spesso il problema consiste nella soluzione
che è stata trovata a qualcosa che spesso un problema non è.
Ci si trova così ad affrontare problemi di natura relazionale, sessuale,
lavorativa e così via senza considerare che è l'obiettivo che ci si dà a non
essere corretto.

Viviamo in una società eretistica e ipertrofica. Soggetti a continue
stimolazioni, viviamo ossessionati dal timore di non essere all'altezza o di
non avere abbastanza. Ad esempio, indubbiamente la sessualità è una
componente importante della vita, ma ne sentiamo il bisogno, più spesso
vissuto come costante insoddisfazione, in funzione di una continua
sollecitazione che non è una necessità autentica della nostra persona. Il
più delle volte si tratta del frutto di continue sollecitazioni che ci
provengono dalla strada, dalla televisione, dal costume delle persone che
frequentiamo. Tutto questo perché mettere in discussione i luoghi comuni ci
risulterebbe ancora più penoso che assecondarli.

La nostra vita è all'insegna di automatismi che ai nostri antenati erano
pressoché sconosciuti. La vita è più semplice di come ci troviamo a viverla.
Per vincere le frustrazioni del lavoro si finisce per assumersi maggiori
responsabilità e per lavorare sempre di più. Eppure il lavoro ha dei costi
che possono essere superiori alla retribuzione che ce ne deriva. Essere
all'altezza del tenore sociale richiesto dal ruolo può essere talmente
costoso che se ne sottraessimo il valore dallo stipendio scopriremmo di
guadagnare meno dei nostri sottoposti. Lavorare di meno sarebbe la cura (sia
per la salute che per i bilanci). Invece cerchiamo aiuto per poter vivere
peggio. E il bello è che lo troviamo, anche. Psicoterapie interminabili,
coaching esasperati, corsi di formazione artefatti, sessuologi ideologizzati
ci aiutano a mantenere l'incubo delle nostre ossessioni.

Bisognerebbe sostituire la terapia delle nostre insoddisfazioni con una cura
che ci salvi dalle assuefazioni "normali". La cura di cui la maggior parte
di noi ha maggiormente bisogno è una terapia della de-sensibilizzazione.
Imparare a "sentire di meno", a non reagire a qualsivoglia stimolo, a
schermare i nostri sensi e la nostra coscienza dalle infinite contaminazioni
dello stile di vita contemporaneo.
È difficile proporre un simile obiettivo a un cliente che si ritiene
convinto della propria analisi e di una diagnosi così condivisa da quanti ha
attorno. Eppure la mancanza di difese o l'uso improprio che il corpo (e la
mente) di ognuno di noi ne fa sono il meccanismo che sta alla base delle
patologie del secolo: virus, retro-virus e malattie auto-immunitarie.

Un modo per vivere meglio lo possiamo praticare tutti senza ricorrere a
consulenti o terapisti: sottrarsi in maniera volontaria all'uso dei mezzi di
sollecitazione automatica dei sensi e dei bisogni. È quasi come smettere di
fumare, ma un po' più difficile, anche perché da nessuna parte si scrive:
"l'auto uccide", "il televisore provoca l'alienazione", "il troppo lavoro
danneggia gravemente te e chi ti sta intorno", "un certo amore crea
dipendenza, non iniziare", come invece si trova su tutti i pacchetti di
sigarette.

Paradossalmente è la "normalità" con cui vengono vissuti dal resto del mondo
questi comportamenti che motiva la richiesta di aiuto.
D'altro canto si può a buona ragione affermare che molte delle patologie
contemporanee - fisiche e psichiche - altro non sono che effetti
dell'ipersensibilizzazione coattiva.
Invece di trattarli con delle cure che prendono sul serio il bisogno sarà
bene smontare gli assunti, lavorare per scoprire i veri obiettivi della vita
equilibrata per poi passare a studiare delle strategie e a mettere in
pratica delle tattiche per desensibilizzarsi, per annullare l'automatismo
dei desideri e per abbassare la soglia di reattività agli stimoli sensoriali
e alle illusioni narcisistiche.

(da Cambiare.org <http://www.cambiare.org/>

giovedì, luglio 28, 2005

Quelli di San Sebastiano?????. Marco Chisotti

Quella di San Sebastiano è per noi un esperienza particolare, ogni anno ci
ritroviamo per una settimana immersi nell¹ipnosi giorno e notte, data la
particolarità di un esperienza del genere desidero analizzare alcuni aspetti
del ³fenomeno².
Innanzi tutto le premesse della nostra scuola possono aiutarci meglio a
comprendere ciò che desideriamo portare avanti coi nostri corsi, ciò che in
particolare nel ritiro estivo di San Sebastiano avviene in un modo ancora
più accentuato.
Io è Beppe siamo due semplici formatori che credono molto nelle persone
tanto da partire per ogni nuova esperienza formativa (ogni nostro corso lo
è) con l¹idea di trovarci dinnanzi persone con grandi qualità e puntualmente
veniamo appagati della nostra aspettativa.
Le persone che incontriamo sono veramente straordinarie (fuori
dall¹ordinario) non è un eufemismo il mio, si tratta solo di saper
indirizzare le loro azioni, formare è letteralmente un form-are per noi,
dare forma attraverso l¹azione.
Naturalmente si deve essere convinti di trovarsi dinnanzi a persone fuori
dall¹ordinario, dove l¹ordinario, il consueto, è ciò che in fondo siamo,
quotidianamente, persone con una precisa identità, e noi volutamente
limitiamo il più possibile di riconoscere alle persone la loro identità per
come ci viene offerta, lasciando loro il tempo di conoscersi attraverso le
esperienze con gli altri.
E¹ strano ma la cosa avviene proprio così, di solito nei corsi si privilegia
l¹aspetto formale o meglio si fa informazione, in fondo credo che ciò
avvenga per evitare il coinvolgimento eccessivo, probabilmente lo stesso
motivo per cui agli psicologi in formazione si suggerisce, alle volte si
impone, di non avvicinarsi troppo al cliente, tanto meno di toccarlo, quasi
se ne temesse il contagio.
Il nostro ³metodo² potremmo definirlo Aristotelico, la forma per lui era
quella cosa che unita alla materia dava origine ad una ³sostanza²
individuale, così per noi è divenuto essenziale dare origine ad individui
³nuovi² partendo da ciò che ognuno porta (materia) almeno rispetto
all¹esperienza vissuta con noi e col gruppo.
L¹azione che svolgiamo è quella sostanzialmente di unire ogni cosa ci riesca
di fare, per far questo ci avvalliamo dell¹ipnosi che ha come effetto
principale quello di legare le cose (come le persone) tra loro proprio come
fa una religione nel suo significato originario (res ligo lett. Legare le
cose) ma lo fa in tempi molto brevi,
L¹effetto che si genera, dall¹avvicinare in tempo breve le persone, è quello
di confondere, la confusione di chi stenta in certi istanti a riconoscersi,
o meglio a ri-conoscersi, dal momento che si trova unito ad un altro
individuo che si collega a lui attraverso un contatto fatto di gesti,
parole, nuove sensazioni, esperienze che divengono condivise, in pratica si
genera una nuova realtà condivisa.
Il costruttivismo, nel pensiero di von Foerster, ci rammenta che la realtà
non è altro che comunità, una comune unità, realtà=comunità.
Dunque un effetto inaspettato si ottiene ogni volta che si procede con
l¹ipnosi attraverso un gruppo, la somma delle parti è cosa diversa dalle
singole unità, l¹unione può risultare maggiore o minore della somma delle
singole unità.
Esiste un rischio dunque, che è necessario correre, quello di unire persone
così diverse che la loro unione possa risultare ³tossica², ma qui subentra
l¹esperienza dell¹ipnosi che abbassa il livello di rischio. Mi spiego, detto
semplicemente l¹ipnosi ha la prerogativa di portarci in uno stato
alternativo di coscienza, abbassando la rapidità con cui ci avviciniamo e
percepiamo il mondo attorno a noi, rallenta anche la nostra capacità di
analisi del reale, limitando le nostre risorse cognitive, limitando il
nostro campo di consapevolezza esterno, limita anche il nostro ³mondo²
interno.
Abbassare la critica, allontanare la conoscenza, ritornare al pensiero
indifferenziato, tutto qui, eppure magicamente ogni cosa si trasforma, la
percezione, i pensieri, si vive un mondo alternativo in un modo alternativo.
Ma al di la delle spiegazioni, delle considerazioni, è un momento, quello di
San Sebastiano, come un sogno lungo una settimana, durante il quale la mia
voce ti accompagnerà, e sarà la voce delle persone a te care, delle persone
che ti han voluto bene??.
Una settimana in cui ci si può perdere e ritrovare, si può dimenticare come
ricordare, un momento che ci si regala per essere come si è o per diventare
altri, in un luogo protetto, un luogo dove ci si può permettere di andare
oltre all¹apparenza, oltre i sensi, oltre il mondo per come lo si intende,
lo si capisce, un mondo oltre??
Il bello è poi che ci si rende conto che l¹ipnosi ti cattura, ti trasforma,
ti guida, ci si rende conto di fingere di essere ma si rimane, come
incantati, come ammaliati, come stregati.
Questo, tutto questo succede indipendentemente da come guardi le cose, dal
ruolo che ricopri, è una sorpresa se la conosci quanto se è la prima volta
che la vivi.
Non è retorica, sono le parole le stesse parole che già conosci a guidarti,
quelle parole che conosci, e si, le conosci già, ma che per la prima volta
le ascolti, le senti realmente. Sono le parole che tante volte hai sentito e
che ora son diverse, sono nuove, e pensi di conoscere il posto e la
situazione, pensi di rivisitare un mondo che conosci ma ti accorgi di
esserci per la prima volta, ed eccoti a cercare logiche giustificazioni in
cose che dovrebbero essere decise solo con l¹istinto.
E¹ un mondo strano questo, un mondo antico conosciuto quanto inesplorato, e
non è fuori ma dentro, questo lo rende straordinario, le storie sono come la
polvere, le storie sono polvere, quelle che racconti, quelle che ascolti,
sono polvere al vento, come un mandala sono composte e distrutte, ricomposte
e ridistrutte?..
Il tempo passa comunque lo vivi, comunque lo senti, comunque! Così è
trascorso il nostro tempo, qualcosa è successo, qualcosa è cambiato, non è
mai uguale quello che si vive perché è frutto di una magica combinazione tra
le persone, tra noi e voi. E¹ frutto di una complessa ed infinita relazione
fatta di cose sussurrate, di cose dette e di cose solo pensate, non è
ripetibile ne modificabile, è un composto di esperienze irripetibili, che
inganna piacevolmente l¹idea che siamo soliti portar con noi di noi.
L¹ipnosi è questo, è un modo diverso di vivere lo spazio ed il tempo, un
modo diverso e complesso di organizzare i pensieri, per questi e per altri
motivi ogni anno la sorpresa dell¹esperienza di San Sebastiano ci coinvolge
e ci stupisce come e più di chi la vive per la prima volta e questo proprio
grazie a quelli di San Sebastiano??.

giovedì, giugno 02, 2005

Dialogo con il paziente


RAPPORTO TERAPEUTA-PAZIENTE: TECNICHE DI COMUNICAZIONE ED EDUCAZIONE

Qualunque medico di famiglia avrà notato che, negli ultimi lustri, si è
passati da una pratica medica caratterizzata da un notevole numero di visite
domiciliari (che in ogni modo si mantengono, fisiologicamente nei periodi
invernali), ad una riduzione delle stesse verso una più affollata attività,
statica, presso i nostri ambulatori, gravata da un grosso armamentario di
test diagnostici e regimi terapeutici se non addirittura da presunte nuove
patologie alcune delle quali nate più da motivi commerciali che da vere
eziologie: intendo dire che se rapportiamo il numero delle domiciliari
rispetto a quelle effettuate in studio, stiamo da 1 a 5 in media.
Tranquillizziamoci però, questa constatazione non è così recente:
nel 1927 il Dott. Peabody la riportava sul Journal of American Medical
Association, aggiungendo però un1osservazione: 3la riduzione delle visite a
domicilio può essere un problema che non si pareggia con il valore
attribuito ai sempre più completi test diagnostici e strumentali; i giovani
laureati sono molto più periti di noi sulla patogenesi e sulla conoscenza
della malattia, ma rischiano di essere troppo scienziati e poco medici in
quanto non conoscono il paziente se non superficialmente, nulla sanno del
suo ambiente di famiglia né di quello di lavoro; dunque essi sanno curare il
paziente, ma sono incapaci di prendersene cura2.
Ciò che ci deve distinguere da altri colleghi, per il ruolo che ci compete,
è quello di prenderci cura dei nostri pazienti.
Come si fa?
Gli ingredienti sono solo tre:

a) La Comunicazione
b) Il Tempo
c) La Pazienza
d) Un pizzico d1Amore per il proprio lavoro e per le persone.

In merito ai punti b, c, d, ho poco da dire: il Tempo è necessario, non è
possibile fare il nostro lavoro con la fretta o con l1orologio sempre sotto
gli occhi; un massimalista sa che tra domiciliari e studio, la sua giornata
è di dodici ore.
Nascosta fra le pieghe del Tempo, c1è la Pazienza (di Giobbe): un medico
nevrotico o di cattivo umore non è utile.
L1Amore verso il lavoro e le persone aiuta il terapeuta ad essere efficace
sugli altri e leggero verso se stesso, ma ognuno di noi deve gestirselo
secondo come lo sente: questo non si può insegnare
Sulla Comunicazione invece si può fare molto.
C1è stato chi ha didatticamente inquadrato tre livelli di rapporto
terapeuta/paziente:

a) relazione attiva-passiva ( Up/Down)
b) relazione di guida-cooperazione
c) relazione di mutua partecipazione.

Non si può per principio dire che uno dei tre sia errato a scapito di un
altro: non dobbiamo dimenticare che il buon terapeuta deve calibrarsi in
base al soggetto che ha davanti, quindi in alcuni casi è necessario
mantenere tutta la propria autorità (a), in altri la stessa si riduce verso
una cooperazione un poco più attiva da parte del paziente (b); ma è
certamente con una mutua partecipazione (c) che la persona prende coscienza
dei suoi problemi e ne diventa maggiormente responsabile, perciò discorsi
irritanti che da qualche malato si sentono (3 il medico è lei, non io2 ecc.)
devono essere cortesemente ma fermamente respinti. Inducendo infatti una
responsabilizzazione di malattia e di cura si è anche meno esposti a
contenziosi medico-legali, poiché si è cancellato il ruolo passivo del
soggetto a favore di una chiara presa di coscienza dello stesso.

Il rapporto interpersonale della relazione terapeuta-paziente permette al
medico di ottenere valide informazioni, fornirle correttamente ed accertarsi
che siano comprese, soddisfacendo così il malato che potrà diventare
collaborante per raggiungere gli obiettivi preposti e concordati.

Il primo elemento è quello di riconoscere le aspettative del soggetto:
in genere chi richiede aiuto vive in uno stato d1ansia per il timore che i
sintomi che dovrà descrivere possano essere associati a qualche patologia
grave; pertanto essi tenteranno o di minimizzare i sintomi o di mistificarne
il contenuto:
se il medico non ascolta e parte da preconcetti clinici dovuti alla sua
conoscenza universitaria, spesso si infila in un tunnel che lo porterà a
conclusioni certe ma errate, secondo un percorso che è solo nella sua testa,
lontano dalla realtà; il paziente poi, tenderà a non contraddirlo o per
timore reverenziale o per timore della patologia, sfuggendo al problema
piuttosto che affrontarlo.
3Se io, medico, fossi paziente, come mi sentirei con un medico di fronte?2
Ecco la domanda chiave per iniziare al meglio un rapporto interpersonale.
La seconda domanda è:
3quali sono gli elementi base per un buon colloquio?2
Ecco le risposte:


FIDUCIA


RISPETTO COMPRENSIONE

Il Rispetto e la Comprensione derivano dalla considerazione che abbiamo
della persona stessa la quale potrà essere noiosa, ripetitiva, a volte
aggressiva, ma sempre una persona; da ciò si genera la Fiducia.
Se si conosce già il paziente, è buona regola controllare la sua cartella
clinica per evitare quelle amnesie momentanee, comprensibili, in merito alla
sua patologia o alla terapia somministrata la volta precedente: il terapeuta
vedrà così aumentata la propria considerazione
da parte del paziente;
se è una prima visita, occorrerà dare molta importanza ed attenzione ai
primi minuti del colloquio, sempre cruciali per instaurare un buon rapporto
di fiducia.
Dopo la reciproca presentazione, occorre prestare molta importanza al:

a) comportamento non verbale

b) al2 setting2.

Il modo con cui il soggetto si presenta, come stringe la mano, se guarda o
no negli occhi, il suo vestito, può dare dati più efficaci di un1anamnesi.
Importante è l1atteggiamento sulla sedia (sedersi in punta può essere un
segno d1insicurezza), come e dove guarda (cercare di non incrociare lo
sguardo del medico suggerisce una situazione imbarazzante), se accavalla o
no le gambe (segno di difesa o semplice abitudine), la posizione del capo
(inclinata posteriormente per ansia o paura, in basso ed in avanti per
tristezza), l1espressione del suo volto (occhi, sopracciglia e fronte
mostrano il più ampio raggio d1emozioni).

Il terapeuta per contro sarà molto attento al proprio tono di voce (meglio
quelli bassi, sempre rassicuranti), allo sguardo ( interessato ma non
inquisitore), alla postura ( il busto leggermente inclinato in avanti), alle
mani:
una mano sul viso, intorno al mento può essere interpretato come 3sto
pensando a ciò che mi dici e valuto la soluzione de problema2; una mano
sulla zona cervicale può far pensare 3il medico è stanco e magari non mi sta
ascoltando; una mano che scopre il polso per guardare palesemente l1ora, dà
l1idea della fretta e genera sempre una cattiva impressione.
Il medico inoltre darà importanza alla congruenza 3 verbale/non -verbale2 ed
alle ridondanze:
talvolta le persone, per paura o altro, razionalmente mistificano o
minimizzano un sintomo o un problema che invece la loro parte inconscia
manifesta assai chiaramente con il non-verbale; ad esempio alla domanda 3Ma
lei si sente bene2la persona può affermare 3sì2 scrollando la testa in un
chiaro 3no2.
Inoltre se il paziente dopo l1iter colloquiale continua a ribadire più volte
sempre lo stesso concetto, significa che non è soddisfatto delle risposte
ottenute, ed allora il terapeuta deve fermarsi a riflettere, rivalutando
tutto il caso.
Facciamo 3 un1inciso2.
Se il terapeuta apprende a conoscere e gestire queste tecniche in maniera
consapevole, potrà sfruttarle a proprio vantaggio per mandare segnali
inequivocabili attraverso il suo non-verbale; ad esempio alzandosi in piedi,
che il tempo concesso alla persona è scaduto e che si deve terminare
l1incontro.
Ma in modo, ripeto, consapevole.
Anche il2 2 setting 2 ha la sua importanza: se lo studio lo permette,
ricevere il paziente al lato della scrivania, anziché di fronte ad essa, può
essere utile nell1instaurare un rapporto fiduciario.

Le parole poi sono come macigni.

Ricevere il paziente che viene per un controllo con 3Qual è il problema2
oppure con 3Cos1è cambiato dall1ultima sua visita2, lo capite, è molto
diverso: nel primo caso si dà per scontato che ci sia qualcosa che non và ed
il soggetto farà del suo meglio per accontentarvi e dare importanza a
banalità patologiche, magari fuorvianti;
nel secondo, si ipotizza un cambiamento, che magari è peggiorativo, ma
almeno avete il 50% delle possibilità?
E1 inoltre opportuno partire con la tecnica dell12imbuto2a porre domande,
partendo, in altre parole da lontano con domande aperte (3 Come si è sentito
dall1ultima visita2), per restringere il campo (3Dice che sente dolore in
tutto il tronco, ma anche le spalle sono dolenti?2) fino a giungere alle
domande chiuse che inducono a risposte precise tipo 3sì2 o 3no2 (3Ma qui le
fa male o no?2).
Talvolta, durante la descrizione del problema, il soggetto può fare delle
associazioni automatiche alle quali il terapeuta deve porre attenzione: se
si sta indagando sul sintomo dolore ed il paziente ti dice che si sveglia
durante la notte ma non per il male, forse una causa dello stesso può essere
nel non riposare bene, e se non riposa bene può essere interessante
allargare il campo con domande del tipo2Ma come vanno le cose in famiglia
ultimamente? E sul lavoro?2. Magari si scopre che un dolore banale è
accentuato da uno stato distimico: in questi casi gioverà più un
antidepressivo a basse dosi, che un analgesico.
In seguito occorre:

1) Incentrare la conversazione su un problema alla volta;
2) Delineare le caratteristiche fondamentali ed il significato di ogni
problema al paziente;
3) Utilizzare affermazioni transizionali per permettere al paziente di
comprendere quando la conversazione si sposta da un argomento all1altro;
4) Riassumere brevemente e periodicamente i punti salienti della
conversazione;
5) Utilizzare un glossario calibrato sull1età e condizione socio-culturale
del malato;
6) Comunicare notizie, affermazioni importanti e terapie essendo certi
dell1attenzione del soggetto, non distratto ad esempio, dal rivestirsi dopo
la visita; in caso di dubbio ripetere per scritto la terapia.
7) Ricordare sempre che la comunicazione avviene anche con il contatto
fisico.

A questo proposito occorre ricordare che il medico è forse l1unico
professionista autorizzato a toccare il paziente violando una 2 privacy
corporea2: ciò genera sempre un certo imbarazzo, quindi è opportuno essere
sempre molto delicati e non incerti al tocco.
Se la mano del professionista è sicura infonde sicurezza, se incerta,
peggiorerà l1ansia; una mano può incoraggiare o consolare o stupire (3Sì, ha
proprio centrato il punto che mi duole, dottore2).

Al termine del colloquio occorre chiedere al paziente se ha altre domande,
se ha ben chiaro ciò che deve fare e come deve prendere i medicinali,
rassicurandolo che il suo medico è a disposizione (in orari e giorni
stabiliti) per essere rintracciato, continuando in tal modo a prendersi cura
di lui.
Molti terapeuti potrebbero obbiettare che i malati sono assai spesso
invadenti e non conoscono limiti al disturbo del medico.
Si può affermare che anche in questo sta l1abilità del professionista.
Il termine 3dottore2 significa maestro, vale a dire colui che educa.
Se il maestro è efficace, l2allievo2 dovrebbe confermare di aver appreso
dimostrando una buona comprensione della sua malattia, portando a termine
azioni favorevoli per la propria salute e ricavandone i conseguenti
benefici.
Una buona tecnica può essere quella di immaginare il colloquio che seguirà a
casa fra la moglie (o il marito) in ansiosa attesa: esso conterrà tutte le
possibili domande sul tipo, la gravità, l1evoluzione della malattia, la
speranza di vita, le cure, gli esami ecc.
Il Maestro dovrà essere chiaro ed esigente.
Dovrà prendersi cura del soggetto e mai fornire assistenzialismo 3a
pioggia2: ciò non esclude, ad esempio, una telefonata al collega ospedaliero
per chiarimenti in presenza del paziente o chiedere notizie anticipate
sull1esito di un esame o una telefonata inaspettata al paziente per avere
sue notizie o quant1altro; dovrà però essere chiaro il suo ruolo di2
caunsellor2 nella funzione d1aiuto e di 3coach2 in quelle esecutive;
trasformarsi in un impiegato o uno sportellista del SSN ne snaturerebbe
l1identità e l1efficacia nell1immaginario collettivo: ci si prende più cura
di un paziente invitandolo a presentarsi a breve per un controllo o a
telefonare eventuali variazioni di sintomi che teleprenotargli gli esami
dallo studio; quello può essere un buon servizio, ma toglie tempo al
colloquio, assai più importante.
L1educazione del paziente consiste anche nel dare poche regole ma chiare
sulla disponibilità del professionista, ad esempio:
il medico sarà a disposizione (vera e completa) in alcuni momenti della
giornata: negli altri sarà demandato ad altri colleghi.
Talvolta soprattutto con pazienti 3difficili2, può essere utile investire
anche il resto della famiglia alla soluzione dei problemi: crearsi degli
alleati che condividano e l1obiettivo di salute ed il percorso, facilita
molto il terapeuta.
E qui naturalmente ci hanno complicato la vita con la 3privacy2, ma talvolta
occorre forzare un po1 la mano, nei limiti dell1etico e dell1utile, per
poter essere efficaci ( nulla ci vieta di chiedere al paziente se possiamo
coinvolgere la famiglia ed in che misura).

sabato, maggio 28, 2005

 Considerazioni dopo due giornate di terapia dedicata all'obesità. A cura dei Dr.i Marco Chisotti ed Antonello Musso.
Efficacia dell'ipnosi terapia in soggetti sofferenti di obesità reattiva.
Stati mentali alterati da sofferenze emotive profonde, possono generare reazioni alimentari esasperate che si interlacciano profondamente con l'identità della persona.
E' dunque inutile affrontare direttamente il problema dieta in quanto l'obesità stessa può essere un modello di sopravvivenza temporanea eliminando il quale si peggiora lo stato generale della persona stessa; può essere più efficace agire a monte sui disagi e tralasciare il problema dieta che potrebbe risolversi conseguentemente in modo automatico.
segue approfondimento...